Se si riformasse, davvero, la scuola italiana…
di Rosario Pesce
Da decenni la scuola italiana è al centro di un dibattito, anche astioso, tra
quanti hanno interesse a riformarla e quanti, invece, assumono, su tale
argomento, posizioni meramente conservatrici.
La riforma della scuola – alla pari di quella di qualsiasi altro ramo della
pubblica amministrazione – deve, evidentemente, trovare innanzitutto il consenso
di chi ci lavora: i tentativi di mutamento legislativo, scaturiti dallo scontro
con i sindacati e con le forze rappresentative del personale docente e
dirigente, sono destinati a fallire miserevolmente, come è accaduto – da ultimo
– alla Riforma Moratti.
Ma in che senso bisogna riformare la scuola italiana?
Il verbo ‘riformare’ è, infatti, sovente abusato: per ‘riforma’, spesso, si
intende il semplice cambiamento dello status quo ante, venendo meno il valore
migliorativo ed, oserei dire, progressivo del vocabolo.
Cosa, esattamente, deve essere riformato?
I programmi? L’organizzazione dei tempi di lavoro? I criteri retributivi e
quelli di assunzione? L’ordinamento giurisprudenziale ed il conseguente assetto
amministrativo? Lo statuto giuridico della figura del docente? Le intrinseche
finalità del servizio scolastico? I principi educativi? I mezzi didattici?
Come si vede, l’incertezza stessa sul senso e sull'oggetto della riforma
raffigura, più lucidamente di qualsiasi opinione, la condizione di caos, in cui
versa il settore della pubblica istruzione: docenti e dirigenti, sindacati e
partiti politici, utenti e semplici cittadini, sanno bene che qualcosa deve
essere pure modificato, ma – quasi per effetto ansiogeno – ignorano cosa e come
vada emendato nell’erogazione del complesso servizio scolastico.
Il Parlamento – dalla caduta della I Repubblica in poi – ha contribuito, invero
non poco, ad incrementare il senso di precarietà attualmente esistente: basti
pensare, in materia di reclutamento, ad esempio, che sono stati attivati,
nell’ultimo decennio, almeno quattro diversi percorsi abilitanti alla
professione docente (il concorso ordinario, quello riservato, le S.I.C.S.I., le
lauree specialistiche), che entrano in reciproca contraddizione, perché formano
docenti provvisti di diverse competenze, che difficilmente entrano in sinergia.
I programmi scolastici – oggi, Indicazioni Nazionali – sono stati più volte
mutati ed ampliati, spesso svuotandosi di un effettivo contenuto educativo, per
effetto, anche, di una interpretazione poco felice della riflessione pedagogica
- rimasta orfana, di recente, del contributo di grandissime personalità, quali
quelle del secolo scorso - che ha abituato a concepire la scuola come luogo di
trasmissione di informazioni vaste ed indifferenziate, piuttosto che come sede
di una formazione ‘primaria’.
Le pagelle, rinominate diversamente, si sono arricchite di molteplici
indicatori, che – preziosi, certamente, sul piano teorico – forniscono, talora,
l’immagine sbiadita di un allievo, alla cui probabile definizione ci si
approssima, per dirla con i lemmi della logica aristotelica, più per estensione,
che per comprensione.
Le bocciature, ormai, non esistono più: un tempo, si giustificava la tendenza
della scuola italiana alla promozione con nobili ideologismi; oggi, molto più
cinicamente e brutalmente, la promozione è, invece, quasi imposta ope legis,
nell’ottica della diminuzione dei costi del pubblico servizio, come recentemente
hanno richiesto, in forma più o meno esplicita, diversi atti e circolari
ministeriali.
Certo, a volte, anche noi docenti non offriamo dimostrazione di elasticità
intellettuale, quando, quasi pregiudizialmente, ostacoliamo qualsiasi ipotesi di
cambiamento e finiamo con l’arroccarci su consolidati convincimenti, che
andrebbero, comunque, messi saggiamente in discussione.
E poi la società – quella italiana, più di quella del rimanente Occidente
opulento – ha contribuito, non poco, a svalutare il lavoro dell’insegnante e
l’importanza stessa della scuola, forse per effetto del rapido imborghesimento,
che l’ha travolta nel corso dell’ultimo quarantennio: la diffusione del
capitalismo ha provvidenzialmente sradicato, infatti, ogni pericolo di
rivoluzione sociale, così come ha, funestamente, provveduto a smantellare, sin
dalle fondamenta, la considerazione e la stima sociale del lavoro intellettuale,
in primis di quello dei professori.
Cosa fare, dunque?
Forse, bisogna tristemente arrendersi all’appello che, all’inizio del Novecento,
lanciavano – con ben altre finalità, molto più intelligentemente provocatorie –
gli artisti futuristi, i quali - con il clamore, che era solito delle loro
pubbliche iniziative - chiedevano la chiusura, d’autorità, di qualsiasi scuola
ed accademia?
Forse, bisogna solamente attendere il prossimo conato, serio, di riforma,
qualora esso si levasse, mai, dal mondo della scuola?
Forse, i docenti, come nel celebre film di Vittorio De Sica, devono accompagnare
la 'salma' - rappresentata dall’istruzione pubblica - nel percorso del suo lento
e mesto funerale, in attesa che altri, aggiungendosi, esprimano a loro - quanto
meno - il dovuto sentimento di compartecipazione?
Noi, per parte nostra, non intendiamo arrenderci a nessuna di queste infelici
prospettive ed auspichiamo, piuttosto, che la condizione del lavoro dei docenti
italiani possa, in futuro, sensibilmente migliorare, all’interno soprattutto di
un contesto sociale più armonioso e produttivo.
Rosario
Pesce
P.S.
Vorrei dedicare queste mie brevi riflessioni, sull’attuale condizione
dell’istruzione pubblica in Italia, ad una cara collega, Rosa Messina, che è
venuta a mancare tragicamente nei giorni scorsi, lasciando il nostro istituto –
Scuola Media Statale ‘G.Amendola’ di Sarno – orfano dell’originalità e della
vivacità intellettuale, con cui ella sapeva accompagnare ogni suo gesto
quotidiano, sia umano che professionale.
14 marzo 2007 |